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Trota allo spiedo: Morti sospette alla Residenza sul Lago
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eBook447 Seiten6 Stunden

Trota allo spiedo: Morti sospette alla Residenza sul Lago

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Über dieses E-Book

Sulle verdi sponde del Chiemsee, il lago più grande della Baviera, sorge un'esclusiva casa di riposo per ricchi borghesi e vecchi aristocratici. Tra gli ospiti della Residenza sul Lago ci sono Helmut Meißner, ottuagenario uomo d'affari, e la baronessa von Hertan, che tra frecciatine e aperitivi galanti sentono di vivere una seconda giovinezza. Qualcosa però tormenta Helmut: la morte improvvisa di alcuni ospiti della Residenza. Per fortuna suo nipote Stefan, commissario della Criminalpol, glifarà presto visita con la fidanzata Marlu. La sua sarà tutt'altro che una romantica vacanza.
SpracheDeutsch
Erscheinungsdatum15. März 2018
ISBN9783960413738
Trota allo spiedo: Morti sospette alla Residenza sul Lago

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    Buchvorschau

    Trota allo spiedo - Lisa Graf

    www.emonsedizioni.it

    Ovunque il caso può servire per lei;

    perpetuamente tenga gettato l’amo.

    Ove non pensi, dove più ferve il gorgo, sarà il pesce.

    Ovidio, L’arte di amare

    Tutti vogliono vivere a lungo,

    ma nessuno vuole invecchiare.

    Johann Nestroy

    Prien, Residenza sul Lago, febbraio 2015

    ‘A me la vendetta; io darò ciò che spetta, ’ dice il Signore. Quel ritornello era sempre sulla bocca di suo padre. Olaf conosce bene la Bibbia, suo padre era un pastore. Appena era riuscito a racimolare il denaro sufficiente per sopravvivere un paio di settimane, Olaf si era lasciato alle spalle Kiel, la sua città natale, felice di non dover più incrociare il genitore per il resto della sua vita.

    Il coltello che ora ha nella mano sinistra era stata la prima cosa che aveva comprato ad Amburgo. È un buon coltello, ancora oggi. La lama è deformata e ondulata per effetto della molatura, ma taglia ancora alla perfezione, come il primo giorno.

    Ha già reciso la parte superiore e inferiore dell’arancia. Incide quel che resta della buccia in sei spicchi, tutti della stessa misura. Sente dei passi fuori dalla porta. Gli spessi tappeti orientali che ricoprono il pavimento del corridoio attutiscono i suoni, ma il rumore è ugualmente percepibile. Aspettava quei passi.

    No, non vuole farsi prendere dalla paura. Ha passato tutta la vita a cercare di scacciarla e ci è quasi sempre riuscito. Ma ora quel sommovimento dello stomaco sa maledettamente di paura, anche se non vuole ammetterlo.

    Ad Amburgo una volta si era dovuto difendere proprio con quel coltello con cui ora sbuccia la sua arancia. Lo aveva puntato contro un collega che voleva fargli la pelle. Anche quella storia fa parte del passato di Olaf. E ce ne sono molte altre. Difendere se stesso e i suoi interessi: quella è stata la sua vita.

    I passi si fanno più lenti, la persona ormai è davanti alla sua porta. Non glielo dice solo la ragione, ma anche l’istinto. Lo avverte chiaramente e immagina cosa voglia. Entrerà da lui, ora.

    Quasi nello stesso istante sente che sta perdendo le forze. Una strana sensazione, mai provata prima. Ha l’impressione che il suo corpo stia perdendo vigore e che debba essere veloce, quanto più veloce possibile, se non vuole cadere a terra. Manca solo un passo al suo letto. Allunga la gamba e riesce a sedersi sul materasso. Poi è tutto finito. Niente più. Nessun passo.

    A me la vendetta. La frase sembra essere molto importante, c’è nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. E allora cosa pretende lei? Olaf sente montare l’ira, ma è troppo debole per opporle resistenza.

    Naturalmente, secondo i canoni dei piccolo borghesi e degli irriducibili sognatori, ha condotto una vita che grida vendetta o punizione. E tuttavia non spetta ai santi, né tantomeno ai santerellini, punirlo, perché sta scritto: ‘A me la vendetta, ’ dice il Signore. Punto.

    È vero che con il coltello che aveva in mano fino a poco prima si era scagliato contro una o due persone, ma quella era un’altra questione. In fin dei conti, non ha mai sostenuto di essere un santo. Invece lei si comporta come se fosse una santa, persino se un bel momento provasse a ucciderlo. Anche se lo ammazzasse, continuerebbe a considerarsi moralmente superiore a lui.

    Olaf aveva fatto strada in fretta ad Amburgo. Si era indebitato, aveva comprato case e le aveva date in affitto alle puttane o ai loro papponi. Amburgo, Herbertstraße. Qualcuno aveva arricciato il naso, ma in ogni caso aveva cercato le sue ragazze. Altri si erano sentiti minacciati dal suo successo. Si sarebbero sbarazzati volentieri di lui, ma non ci erano mai riusciti. Se l’avessero fatto, lui lo avrebbe accettato, perché è un principio della Legge: Chi ama il pericolo perirà in esso. È scritto nella Bibbia e Olaf lo sa da sempre: chi si mette con la mafia vive nel pericolo. Eppure nella sua vita non ha mai avuto paura, perché così dice la Legge.

    Ma da quando l’infermiera Pia è venuta a conoscenza del suo passato, non è più la stessa. Prima, quella che qui alcuni chiamano la beghina Pia, era cortese e disponibile, sempre piena di attenzioni e di premure nei suoi confronti. Da alcune settimane Olaf non vede più in lei nessun barlume di attenzione, né tantomeno di premura. Lo ha rimproverato, gli ha posto delle domande a proposito di un articolo apparso su una rivista, in cui si parlava del Barone di St. Pauli. Il suo ritratto. Alcuni dettagli erano sminuiti, altri enfatizzati. Ma nel complesso l’articolo non lasciava dubbi. Lo ha ammesso anche Helmut, suo vicino di tavolo di lunga data.

    Non che andasse orgoglioso della sua vita amburghese, ma non voleva nemmeno far finta che non fosse mai esistita. Ad Amburgo era diventato lo squalo del mercato immobiliare, con centinaia di appartamenti di proprietà. Da outsider, si era trasformato in un partner di assicurazioni, di banche, della città di Amburgo e persino del governo federale. L’infermiera Pia gli ha parlato della storia apparsa sulla rivista e lo ha esortato a fare penitenza. Per Olaf il lato bello della vita nella Residenza sul Lago è che quasi tutti gli altri ospiti sono ricchi sfondati e di conseguenza generalmente più inclini alla tolleranza rispetto agli impiegati statali e ai lavoratori autonomi di piccolo calibro, che spesso danno un peso eccessivo alla morale e sono capaci di guastarti la giornata con i loro princìpi.

    C’è qualcuno davanti alla sua porta. Lo avverte distintamente. Già la sera, assumendo i farmaci, non aveva avuto una buona sensazione.

    Allora, signor Janssen, oggi prenderà una nuova pasticca che la farà subito sentire molto meglio, aveva detto l’infermiera Pia, mettendo una pillolina blu nel piattino. La prenda con un sorso d’acqua. Gli aveva porto il bicchiere.

    Tutto in lui gli diceva di non farlo, ma era diventato troppo debole per opporre resistenza. Forse era la conseguenza dell’altra pillola che gli avevano aggiunto dall’inizio della settimana. Per la pressione alta, aveva detto l’infermiera Pia. Olaf non crede alle congiure su larga scala, ma alle cattiverie nel piccolo, a quelle ci crede, eccome. Sa che ne è pieno il mondo. Ma qui? L’infermiera Pia, la santerellina?

    Olaf cerca di condurre verso le sue mani tutte le forze e le energie che gli sono rimaste in corpo. Il pulsante dell’allarme è ad appena trenta centimetri dal letto. Gli sembra che le sue mani si siano già mosse di circa tre centimetri. Ora ne mancano solo ventisette. Un altro centimetro, ora sono solo ventisei.

    Si sente un debole click. Il rumore proviene dalla porta. Qualcuno ha appoggiato la carta magnetica sul sensore e la serratura, aprendosi, ha prodotto quel suono.

    Un altro centimetro, ora ne mancano solo venticinque. Ma non va oltre. Vuole girare la testa verso la porta, ma non ce la fa. La riconosce con la coda dell’occhio.

    Si sente meglio ora? domanda con un suono falso nella voce. Perché non mi guarda? È già lì, in piedi accanto a lui.

    Nemmeno ora riesce a girare la testa.

    Accidenti, non riesce più a muoversi? È uno dei possibili effetti collaterali della medicina. Per sua fortuna ci sono io a occuparmi di lei. L’infermiera Pia tira fuori dalla tasca del camice una fialetta e una siringa sottile, che riempie con il liquido verdastro e trasparente.

    Gli afferra il braccio, ne ruota l’interno verso di sé e gli introduce l’ago nella vena. Sentirà dei dolori, ma niente paura. Se dovessero diventare troppo forti, perderà i sensi. La natura ha stabilito che le cose vadano così. Un prodigio, non è vero?

    Lui vuole dire qualcosa, ma non ci riesce. Ha la lingua pesante come il piombo.

    Nelle ultime notti non ho quasi chiuso occhio. Non potevo fare a meno di pensare a quante donne nei suoi appartamenti, giorno dopo giorno, notte dopo notte, hanno dovuto sopportare il viavai di uomini. Uomini che pagavano solo per rendere lei sempre più ricco. Riesce a immaginare quanto sia stato doloroso per quelle donne? Se ne stanno sedute nei loro appartamentini o nelle loro camerette, ed ecco che suonano alla porta. Dev’essere orribile, si infervora Pia.

    Per una volta Olaf riesce a piagnucolare, sommessamente e solo per pochi secondi. Le lacrime scorrono lungo le sue guance, mentre l’infermiera Pia esce dalla stanza, tirandosi dietro la porta.

    Ingolstadt, domenica 17 maggio 2015

    Nella stanza splende il sole, o meglio, ci prova. Sarebbe il caso di lavare i vetri. L’effetto prima-e-dopo sarebbe talmente incoraggiante, che verrebbe subito voglia di mettersi all’opera anche con le altre dieci finestre. Al risveglio, il primo sguardo di Stefan Meißner si posa sui vetri offuscati dalla polvere e dallo sporco. Il suo primo pensiero: mi fa male la schiena. Il secondo sguardo si sofferma sulla causa del dolore, i materassi rivestiti di spugna arancione appoggiati sul pavimento, sui quali ha trascorso la notte. Un regno in cambio di un letto, quanto più alto possibile, e di una rete con doghe di legno. Ora, come fare ad alzarsi senza incriccarsi la schiena o pizzicarsi un nervo? In ogni caso, massima prudenza. L’ultima volta gli ci sono volute tre settimane per tornare a camminare normalmente. Sei sedute dal fisioterapista, esercizi per i muscoli la mattina e la sera, esercizi dei quali fino a quel momento non conosceva neppure l’esistenza. Dunque, massima prudenza, bisogna evitare scatti bruschi. Il movimento dev’essere quanto più possibile morbido e fluido.

    Al risveglio, per un attimo, non ha capito dove si trova. Solo un’occhiata al secondo materasso accanto al suo gli ha chiarito le idee. Lo riporta alla realtà il ciuffo arruffato di capelli biondo scuro sul cuscino con motivi psicheledici che danno il capogiro solo a guardarli. Dove ha preso quelle robe Marlu? A lui non piacevano nemmeno quando abitavano nel vecchio appartamento di lei, nella Sebastianstraße.

    Il groviglio accanto a lui si muove. Marlu solleva la testa, si gira verso di lui e lo fissa incredula, come se non lo riconoscesse o, peggio ancora, si chiedesse come sia finito sul materasso accanto a lei. Lui è immobile, per colpa della schiena. Poi la memoria di Marlu sembra rimettersi in moto.

    Ah, sei tu. Lui non trova particolarmente carina quell’osservazione e le chiede: Ti aspettavi qualcun altro?

    È ancora tutto così strano. Marlu si stringe a Stefan, che la prende tra le braccia con molta cautela, per via della schiena. Sembra di vivere un’autentica avventura, non ti pare?

    A dirla tutta, sposterei volentieri l’avventura da un’altra parte, in un letto vero e proprio, per esempio.

    Non mi riferisco ai materassi, replica Marlu. Anche se trovo che non stonino per niente. Intendo il tutto, il fatto che finalmente viviamo insieme. La nostra prima casa! Questa è l’avventura.

    Addirittura una casa indipendente, che ha più o meno cinquecento anni, all’interno delle mura cittadine. E un giardino con i raperonzoli.

    Te lo saresti mai immaginato? chiede Marlu estasiata.

    No, ho sempre pensato che prima o poi me ne sarei andato da Ingolstadt. Mi sarebbe sempre piaciuto trasferirmi al Sud.

    A Rosenheim, magari? sogghigna Marlu.

    Ahah. Intendevo a sud delle Alpi. Almeno nella parte alta del Lago di Garda o giù di lì.

    Ma è noioso da quelle parti. Sempre sole, cibo delizioso, dolce vita, belle donne e birra leggera.

    E nessun primo ministro bavarese della CSU che vive nel paese vicino.

    Uff, sbuffa Marlu.

    Ma sì, una bella donna in fondo ce l’ho già. E poi prendo per buono che sia il sole, non la sporcizia, ad annebbiare i vetri. E se ora riesco anche a sollevarmi da questo materasso senza procurarmi grossi guai, posso persino occuparmi del nostro benessere fisico e andare a comprare la colazione. La bacia, muovendosi con cautela. Penso che non sia il caso di cominciare il primo giorno nella nostra prima casa con il pane di ieri. I tuoi piani ambiziosi di ristrutturazione hanno bisogno di solide fondamenta.

    Ce la caveremo in quattro settimane. Forse anche un po’ prima, così riusciamo ancora a infilarci un paio di giorni sul Lago di Garda. A giugno lì fa già caldo, vero?

    Direi che lì giugno è addirittura il mese migliore. È tutto in fiore…

    Come nel nostro giardino.

    Bah, posso allungare il collo quanto voglio, ma vedo solo soffioni, margheritine e un mare di sterpaglia.

    È carino anche così, commenta Marlu, baciandolo in un modo che gli fa venire la tentazione di posticipare ancora un po’ la spesa. Ma al primo movimento sbagliato Stefan lancia un urlo e si rannicchia su se stesso, come gli ha consigliato di fare la fisioterapista in caso di emergenza. Poi prova a inarcare la schiena, con cautela.

    Il nuovo letto arriverà solo la settimana prossima, precisa Marlu. Nel frattempo posso fare qualcosa per te? Un massaggio, magari?

    Non mi toccare! grida Stefan, tornando a rannicchiarsi.

    Cominciamo bene, brontola Marlu. Non so se riuscirò a reggere fino alla settimana prossima.

    Allora vedi di farti venire in mente qualcosa, farfuglia lui. Qualcosa che faccia bene alla schiena.

    Dopo circa dieci minuti Stefan esce lentamente dal letto per fare una doccia calda. La sua pancia brontola. Con l’ibuprofene da 800 mg andrà tutto a posto, ma prima deve mangiare qualcosa, altrimenti avrà dei fastidi allo stomaco. Quattro settimane per ristrutturare la vecchia casa. Quattro settimane di vacanza per loro due. Czerny si è superato con la sua generosità: nel concedergli le ferie gli ha persino fatto gli auguri, con tanto di occhiolino. Come se avesse presagito che si sarebbe procurato uno strappo alla schiena, prima ancora di prendere in mano un secchio di vernice o una spatola.

    La doccia calda gli fa bene. Si veste con molta cautela. Per fortuna le sue scarpe non hanno i lacci. Mentre esce di casa, gli squilla il cellulare. L’overture del Tannhäuser. Era un bel po’ che non sentiva quella musica. È suo padre. No, non è il momento. Ora deve badare a se stesso. Prima deve andare in panetteria, poi alla farmacia di turno per procurarsi l’ibuprofene. Ora sono queste le priorità. Penserà a suo padre solo dopo colazione. E poi magari vedrà anche di riprendere il filo di quello che si è perso quella mattina sul materasso. Prende la chiave dal gancetto e si tira dietro la porta.

    Quando Stefan Meißner ritorna con un sacchetto di croissant al burro, bretzel appena sfornati, dei panini e le pasticche, anche Marlu è in piedi. Profuma di bagnoschiuma e ha i capelli raccolti in un sapiente chignon, dal quale fuoriesce qualche ciocca. Indossa una delle camicie di Stefan. Ai piedi ha un paio di calze di lana.

    Sono di mia nonna, chiarisce, mentre lui la scruta da capo a piedi, indugiando con lo sguardo sulle sue estremità.

    Anche quello? chiede, indicando il servizio di porcellana con il decoro di rose posato sul tavolo da tappezziere, che per il momento sostituisce i mobili.

    Rosa selvatica, puntualizza Marlu. Di Villeroy & Boch. Eh sì, anche quello è della nonna. Dovevo assolutamente tenerlo. Non ti piace?

    In fin dei conti non dobbiamo mica usarlo tutti i giorni, commenta Stefan.

    La cucina della nonna invece non è sopravvissuta, ma d’altra parte la nostalgia di Marlu non si è spinta così in là. Ha già riempito il contenitore dei rifiuti ingombranti fino all’orlo. Finché non verranno consegnati i nuovi mobili della cucina, hanno a disposizione un frigorifero, un bollitore per il tè di proprietà di Marlu e la Saeco di Stefan. Questo è tutto ciò che Stefan Meißner ha portato con sé dal suo vecchio appartamento: borsa da viaggio, frigorifero e la Saeco che usa solo lui e che controlla, pulisce e decalcifica con meticolosa regolarità. Meißner beve caffè dalla mattina fino a mezzanotte, ma lo apprezza anche più tardi, e non gli impedisce di addormentarsi. Soprattutto con quella cremosità inarrivabile, che solo una Saeco, con la sua pompa a quindici bar, può offrire.

    Mentre Marlu spacchetta le leccornie, tirandole fuori dal sacchetto della panetteria tra un mh!, un ah!, e un wow!, Stefan avvia la sua macchinetta del caffè, completamente automatica. Il macinacaffè si mette in moto, l’acqua va in temperatura e la preparazione del caffè ha inizio. Il suono preferito di Stefan, insieme ad alcuni altri, che però non provengono dalla Saeco, bensì da Marlu. Considerala un’avventura, dice a se stesso, non un rischio. L’addio ai loro rispettivi appartamenti da single e l’avvio della convivenza. E, prima ancora, quelle quattro settimane di pausa. Una boccata d’aria durante la quale, nel peggiore dei casi, si può ancora revocare la disdetta. Ma questo è un pensiero solo suo. Nella testa di Marlu quel mese serve per la ristrutturazione, oltre che per imparare a conoscersi nella quotidianità, e Czerny gli ha dato la sua benedizione. Non se lo sarebbe mai sognato. Fino alla fine aveva segretamente sperato che il suo capo estraesse il cartellino rosso di fronte al fai-da-te. Marlu deve avere un’arma di ricatto nei suoi confronti. Altrimenti quando mai Czerny avrebbe concesso loro quattro settimane di vacanza in contemporanea? Spontaneamente? Mai e poi mai! Ci dev’essere un torbido retroscena, tanto torbido che lei non gliene ha mai parlato. Forse un vecchio intrigo, un grande favore che le doveva, o qualcosa di peggio. Né Czerny, né Marlu hanno risposto alle sue domande. Al contrario, si sono comportati come se fossero solo sue fantasie.

    Il tavolo da tappezziere si piega sotto il peso della prima colazione nel nuovo appartamento, e non si tratta di una metafora, visto il piano sottile e le gambette striminzite.

    Fai attenzione a sederti, lo avverte Marlu. Il tavolo è pensato per la carta da parati.

    Lo so, mormora Stefan, con il naso quasi infilato nella tazza con decori di rose selvatiche che contiene il suo caffè cremoso. Probabilmente comunque toccherà a te rimboccarti le maniche e sparecchiare il tavolo con tutto il roseto.

    Marlu addenta il suo croissant e farfuglia con la bocca piena: Ha chiamato tuo padre. Sulla lettera p le briciole di sfoglia schizzano qua e là sul tavolo. Non hai sentito?

    Sì, ma ho pensato che se fosse stato importante avrebbe richiamato.

    Gli mettono un’anca nuova, lo informa Marlu.

    Rispondi sul mio telefono? È incluso in automatico nel pacchetto convivenza?

    Dai, non fare subito l’offeso, replica lei. Ha chiamato quattro volte di fila. Quattro volte quella musica orribile. È così tetra. Ho pensato che fosse successo qualcosa.

    "È l’overture del Tannhäuser. E mio padre fa sempre così. Una volta che si è deciso a chiamare, non si arrende facilmente."

    Non ti importa di sapere come sta?

    Gli mettono un’anca nuova. Buon per lui. Vent’anni fa non erano così generosi con quei pezzi di ricambio costosi.

    Vent’anni fa non ne avrebbe nemmeno avuto bisogno, replica Marlu pragmatica. Ma fosse stato solo per l’anca, forse non si sarebbe nemmeno fatto sentire. Non è quello il problema.

    E qual è allora? vuole sapere Stefan, curioso. I croissant del nuovo panettiere non sono niente male. Forse solo un pelo troppo grassi.

    Dato che nei prossimi giorni non potrà muoversi, non potrà andare a trovare tuo zio.

    Quale zio?

    Quello che vive nella casa di riposo sul Chiemsee. Aspetta, si chiama come…

    Come due dei nostri ex cancellieri. Mio zio Helmut. Fratello di mio padre. Imprenditore, fondatore di una catena di negozi di bricolage. Ricco sfondato, a memoria mia. Altrimenti non potrebbe permettersi quel residence di lusso con vista sul lago, dove si trova adesso. Hai idea di quanto costi un posto del genere? Non è alla portata di un funzionario di polizia, non farti illusioni.

    Marlu si infila in bocca l’ultimo pezzettino di croissant. A quanto pare le è piaciuto.

    Se andiamo avanti così, dovrai occuparti di me di persona. Oppure mettermi all’ospizio della Caritas. O magari nella casa di riposo Elisa. In quel caso non dovrei spostarmi di molto. È dietro l’angolo, appena passato il commissariato di polizia.

    Grazie a Dio non siamo ancora così malmessi… parlo di te, ovviamente, ridacchia Marlu. Non fare quella faccia! Prima che tu finisca in una casa di riposo, facciamo ancora in tempo ad avere una nidiata di bambini. Scherzo, aggiunge, vedendogli il panico stampato sul viso. Allora, prenda appunti, signor Meißner: abbiamo quattro settimane di vacanza e sistemiamo la casa di mia nonna, questo è tutto. E ci godiamo il tempo insieme. Quattro settimane fuori servizio. Niente spacciatori, niente ladri di auto, niente vandali ubriachi, riunioni di servizio, verbali. Riesci a crederci?

    No. Ma cosa è successo allo zio Helmut? Perché mio padre ti chiama per lui?

    Non ha chiamato me. Ho solo risposto al tuo cellulare. E gli ho spiegato del nostro progetto della casa. Ne è stato contento. O perlomeno così mi è sembrato.

    Mio zio Helmut, ribadisce Stefan.

    Sì, sì. Chiama in continuazione tuo padre e dice di non sentirsi più al sicuro nella Residenza sul Lago. Dice che lì la gente sparisce o muore. Un signore anziano è morto all’improvviso, nonostante stesse abbastanza bene e tuo zio avesse parlato con lui solo il giorno prima. Cose di questo genere.

    Forse lo zio Helmut ha l’Alzheimer. O la demenza senile. Ci sono tutti i presupposti.

    Tuo padre dice che non ci crede. Ma per via della sua anca non può andare fin là di persona e occuparsi della faccenda.

    E allora?

    Voleva chiederti se tu, per caso…

    Io? Dallo zio Helmut! Scordatelo! L’ultima volta che l’ho visto è stato al funerale di mia mamma. E ha riso di me quando gli ho detto che sono un poliziotto.

    E cosa c’è da ridere?

    Per un imprenditore ricco sfondato? Te lo dico io cosa c’è: la nostra paga! Gli stipendi dei funzionari pubblici lo fanno morire dal ridere. È sempre stato così. Un tempo, quando veniva a trovarci, dava immancabilmente cinque marchi a me e a mia sorella, sia che avessimo cinque o quattordici anni. Cinque marchi! Puoi crederci?

    Era la moneta con il curioso uccello su uno dei due lati, vero?

    Esatto. La moneta con la quale ti compravi un bretzel all’asilo, sbuffa Stefan. Accidenti! Devi sempre tirare in ballo il fatto che sei giovane?

    Quando è ormai convinto di aver archiviato l’argomento zio Helmut, Marlu lo rispolvera: Dunque, trovo che il prossimo fine settimana potremmo fare una gita sul bel Chiemsee. Dopo una settimana passata a tirare via la tappezzeria, stuccare e tinteggiare, ci farà bene. Forse si può già persino fare il bagno nel lago, se continua a fare così caldo.

    Io trovo carino anche il laghetto di Geisenfeld. È l’ultima scappatoia di Stefan.

    Certo, ma lì non c’è lo sfondo delle montagne. E non ci sono nemmeno le barche a vela bianche e i moli per l’attracco dei battelli a vapore.

    Tutte cose di cui posso fare a meno, borbotta il coinquilino di Marlu. Mi faccio ancora un caffè e poi ci mettiamo al lavoro, altrimenti le quattro settimane non ci basteranno a sistemare la vecchia casa. Quando arriva la cucina?

    Martedì.

    Quindi dovremmo incominciare a fare qualcosa, non credi? In piedi davanti alla Saeco, Stefan vede sotto il tavolo da tappezziere le gambe nude di Marlu, con gli spessi calzettoni di lana ai piedi. Di’ un po’, non senti freddo?

    Sì che lo sento. Magari mi metto ancora un attimo sotto le coperte per riscaldarmi. Solo un attimino. Gli lancia un’occhiata.

    La ristrutturazione incomincia proprio bene, pensa Stefan. Io sono dell’idea di occuparci della camera da letto, subito dopo la cucina. Ho bisogno del mio letto. Non ho più l’età per dormire su un materasso appoggiato sul pavimento. Tira fuori dalla borsa l’ibuprofene comprato in farmacia e ingoia una pasticca, in modo da rilassare la schiena e sedare il dolore. Poi si stira con cautela e guarda fuori dalla porta che dà sulla terrazza.

    Marlu si stringe a lui. Guarda, il nostro giardino, commenta trasognata.

    Ma tutto ciò che Meißner riesce a vedere è un pezzo di prato ricoperto di feltro che ha bisogno di un tosaerba, una siepe che non viene potata da almeno dieci anni e sterpaglia selvatica dove forse un tempo c’erano delle aiuole. Marlu deve vederci qualcos’altro. Tipico delle donne. Non vedono le cose come sono, ma come potrebbero essere. Non mettono semplicemente in conto cosa occorre per raggiungere quel risultato: tre mesi di duro lavoro, alle prese con cesoie, tagliasiepi e tonnellate di sfalci e potature.

    Magari potremmo anche pernottare al Chiemsee, gli sussurra Marlu all’orecchio. In un bell’hotel con piscina, sauna e un lettone confortevole: bello alto e con un materasso per chi soffre di dolori alla schiena. Per riposarci, ovviamente.

    Anche nell’oasi naturalistica sul Danubio ci sono degli hotel, le sussurra lui per tutta risposta.

    Lei gli dà un pugnetto nel fianco e va in bagno, dal quale riemerge poco dopo, indossando un paio di jeans sexy con strappi orizzontali sulle ginocchia e una t-shirt bianca dal taglio irregolare.

    Incominciamo? Via la tappezzeria. Prima la cucina, poi possiamo passare alla camera da letto, okay?

    Okay, dammi il tempo di cambiarmi con calma. Ah, Marlu?

    Sì?

    Come siete rimasti con mio padre? Richiama più tardi o vi siete accordati diversamente?

    Non ne ho idea. Mi ha lasciato l’indirizzo e il numero di telefono di quella casa di riposo sul lago e… È già con un piede fuori dalla stanza, per prendere gli attrezzi.

    E cosa? le fa eco lui.

    E io gli ho promesso, o perlomeno gli ho lasciato intendere, che ci andremo noi e ci occuperemo di tuo zio. Insomma, giusto il tempo di controllare se è tutto a posto e portargli i saluti del fratello. Che differenza di età c’è tra loro due?

    Sta divagando, pensa Stefan. Circa dieci anni, o forse otto, borbotta, mentre la vede sparire nel corridoio. La richiama: Ah, Marlu?

    Lei infila di nuovo la testa nel vano della porta, con un’espressione innocente sul viso. Sì?

    Gradirei che in futuro tu evitassi di rispondere al mio cellulare, a meno che non si tratti di emergenze che dobbiamo ancora definire. Anche se chiamasse un astronauta della spedizione su Marte. Chiaro? Meglio fissare subito i paletti.

    Avevo già pensato anch’io a una cosa del genere, replica lei docile. Preferisce non fare cenno al fatto che, su richiesta del padre di Stefan, gli ha lasciato il suo numero di telefono. Una mezza verità non è una bugia. Però Klaus, tuo padre, è veramente in pena per suo fratello. Penso che non possiamo tirarci indietro.

    A questo punto lo penso anch’io. E questo è quello che succede quando non si lascia semplicemente squillare il telefono senza rispondere, Marlu. Dovresti tenerlo a mente.

    Ora però vai a cambiarti! O stai cercando di scansare il lavoro?

    Stai attenta tu, piuttosto! Chi riesce a togliere la prima striscia di tappezzeria può esprimere un desiderio.

    Marlu è d’accordo. Okay, credo di avere già qualcosa in mente.

    Stefan Meißner sente che l’antidolorifico incomincia finalmente a fare effetto.

    Prien, Residenza sul Lago, martedì 19 maggio 2015

    La sua mano è poggiata sulla tasca esterna del blazer, a protezione del contenuto, come se si trattasse di un tesoro prezioso, raro, se non impagabile. Un parallelepipedo lungo poco più di dodici centimetri, largo poco più di cinque e alto appena uno. Per lei, una donna benestante, è un vero tesoro. In passato ha diretto un’azienda familiare con più di mille dipendenti, ottocento dei quali uomini, e nessuno ha mai avuto dei dubbi, nemmeno per un istante, sul fatto che lei fosse all’altezza di quel compito. Mese dopo mese, ha versato diversi milioni di marchi tedeschi di stipendio sui conti correnti dei suoi dipendenti, mentre lei, dal canto suo, si sarebbe potuta comprare praticamente tutto ciò che si può avere con i soldi. Benestante, capace, eppure con i piedi per terra: così l’aveva descritta una volta la Stuttgarter Zeitung, cogliendo nel segno.

    Oggi il suo tesoro più prezioso pesa settanta grammi. È rettangolare e dev’essere tenuto al riparo da sguardi curiosi. Altrimenti arriverebbe immediatamente qualcuno a estorcerglielo o quantomeno a guastarle il piacere che ne ricava. Ha fatto l’errore di andare in pensione e il lavoro di una vita ormai è dimenticato. Dimenticati i milioni di tasse che ha pagato e la riconoscenza dei suoi collaboratori, quando, nel bel mezzo di una crisi economica, aveva annunciato con voce ferma: Sono tempi duri, ma nessuno verrà licenziato. Anzi, diventeremo migliori, più grandi e più internazionali. E le cose erano andate proprio in quel modo.

    Ma ora il passato non interessa più a nessuno da tanto tempo, così lei va in giro con il suo tesoro in tasca. Sa esattamente dove vuole andare, ma lì ci sono ancora delle persone che si stanno vestendo e che la disturbano.

    Dimmi tu se devo fare questa trafila di merda, mormora tra sé e sé mentre, senza dare nell’occhio, inizia un altro giretto per la Residenza nella speranza che, quando passerà nuovamente davanti allo spogliatoio, il suo posto sia libero.

    Si sente umiliata, bistrattata dal mondo e piantata in asso. Si deve nascondere come una ladra per concedersi un piccolo piacere. Sempre all’erta, per non essere scoperta. Come un ragazzino di prima media, costretto a fumare di nascosto una sigaretta nei bagni della scuola, perché la professoressa gli tirerebbe le orecchie, se mai lo scoprisse. Oggi ovviamente non più, ma un tempo, quando andava a scuola lei, era all’ordine del giorno. E per giunta la doveva anche chiamare Signora professoressa. Alle scuole medie! E ora di nuovo qualcosa di simile, alla sua età. Ma che cos’è mai la dignità in confronto a un quadratino, un pezzo o magari anche una tavoletta di finissimo cioccolato?

    Ancora un paio di passi. Via libera, finalmente. Nello spogliatoio, ma non per cambiarsi e usufruire della Spa Sea. Solo per entrare dentro e occupare subito il posto al sicuro dietro la porta. La luce si accende automaticamente, da lì potrebbe accedere alla piscina alla quale l’illuminazione dà riflessi turchesi, fare qualche vasca o lasciarsi massaggiare da una dozzina di soffioni subacquei nell’idromassaggio. Ma lei non entra negli ampi spogliatoi, se ne sta seduta su una sedia di plastica dietro la porta. Da quella postazione almeno può osservare ciò che succede nel corridoio che conduce dal ristorante all’area relax.

    Attraverso la fessura tra l’anta e lo stipite della porta tiene d’occhio alcuni metri di corridoio. Uno spesso tappeto attutisce il rumore dei passi, che comunque si riescono a percepire. Per Josefine Peinhardt, cercare di indovinare dai rumori chi comparirà nel suo campo visivo è diventato una sorta di hobby. La sedia parcheggiata dietro la porta è la sua postazione fissa. Come un palchetto per il cacciatore, la sedia le offre la comoda opportunità di osservare ciò che succede nelle immediate vicinanze, senza essere osservata a sua volta.

    Nel frattempo scarta la tavoletta, senza leggere cosa c’è scritto sull’etichetta. Meglio annusare direttamente e indovinare quale tipo di cioccolato ha afferrato a occhi chiusi dal suo deposito segreto.

    Click, ora è seduta al buio. La sua postazione si trova fuori dalla portata del sensore di movimento, che accende la luce negli spogliatoi. Tre minuti dopo il suo ingresso, la luce si spegne automaticamente.

    Zenzero e cocco? Fa luce sull’involucro attraverso la fessura della porta che dà sul corridoio. Sì! Zenzero e cocco, l’olfatto non l’ha mai ingannata. Allunga la lingua e la passa lungo le righe che separano i quadratini di cioccolato.

    Ohi, chi sta arrivando? sussurra. Si direbbe il rumore di una camminata un po’ traballante, come se la persona che percorre il corridoio in direzione della Spa trascinasse una gamba. Alla Peinhardt piacerebbe scommettere, ma non c’è nessuno con cui farlo. È il vecchio Meißner, ne è sicura. Lei pensa il vecchio, mentre Helmut Meißner ha cinque anni buoni in meno di lei ed è molto più agile. Da quando è alla Residenza, Josefine Peinhardt ha messo su peso e non poco. Ha preso più di venti chili, anche se non si può definire grassa. È senz’altro per via delle pasticche, suppone. Fare più movimento potrebbe aiutarla a non ingrassare ulteriormente, lo sa bene, ma non ne ha nessuna voglia. Non è mai stata una sportiva, semmai il tipo lo sport uccide. E il cioccolato? Il cioccolato è l’unica cosa che mi rende ancora felice. Senza cioccolato possono anche mettermi sotto terra, ha detto una volta in tutta serietà a Helmut Meißner.

    Ora lui è all’angolo. Sì, è lui. Non si sente osservato, lei se ne accorge subito. Essendo vanitoso, quando sa di avere gli occhi addosso si dà immediatamente un contegno. Da quel momento in poi cammina eretto, chiama a raccolta tutta l’energia che gli è rimasta in corpo, raddrizza la schiena e cerca di camminare impettito come un pavone, come se non gli scricchiolasse il ginocchio, non gli formicolasse il piede e non sentisse degli strappi alla schiena. Ora invece, supponendo di non essere osservato, si abbandona senza pudore ai suoi dolori. Zoppica leggermente, strascica i piedi sul pavimento e si accosta persino alla parete, per reggersi al passamano.

    Josefine Peinhardt sente un secondo rumore, molto dinamico, quasi aggressivo e immagina di nuovo da chi provenga. Ciac, addenta il cioccolato e sente cambiare la consistenza del quadratino nella sua bocca. Da duro diventa morbido, cremoso, e poi basta una leggera pressione contro il palato per spalmare il cioccolato quasi liquido sulla sua lingua. Un tempo capitava che fosse più affamata di uomini, ma ora il cioccolato non ha più rivali. La Peinhardt si gode il momento, chiude gli occhi, reclina leggermente la testa all’indietro e si passa la lingua sul palato, disegnando dei cerchi. Helmut Meißner non si è ancora accorto della persona che gli si sta avvicinando e continua a essere prigioniero dei suoi handicap.

    È lei, l’infermiera Pia. Josefine

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